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Le parole del tennis — i migliori racconti

La mia finale di Coppa Davis nel campetto della parrocchia

Questo contenuto è stato pubblicato 7 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Avevamo appena fatto in tempo ad esultare per la vittoria di Santiago del Cile che già eravamo in sella al mio motorino per recarci al campo della parrocchia a giocarci la nostra finale. Io e Marco avevamo poco più di dodici anni, ma io ero già motorizzato e così, un giorno sì e l’altro pure, rubando tempo ovviamente ai compiti scolastici, ci precipitavamo al campo in cemento, si fa per dire, più asfalto che cemento in realtà, dove emulare i nostri eroi: Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli prima di tutti, senza dimenticare però Vilas, Connors e Borg. Il tempo, inteso in senso meteorologico, per noi non aveva alcuna importanza, sotto il sole cocente di luglio a quaranta gradi o con il gelo di gennaio, il vento e la pioggia battente, si giocava per lunghissime interminabili partite, a causa soprattutto delle nostre contese su ogni punto, vista l’assenza di giudici centrali, di linea e di ogni sorta. Eravamo noi giocatori, giudici e spettatori, con qualche amico a quattro zampe, non pagante chiaramente. Il tennis, per un paese di provincia come il nostro, era una scoperta recente, immersi i più nelle contese calcistiche locali e nazionali. Quel giorno, però, la partita aveva tutto un altro sapore, le immagini di Santiago le avevamo ben impresse nelle nostre menti e nei nostri occhi, eravamo io e Marco divisi dalla rete a giocarci la nostra partita, ma sembrava quasi che fossimo invece insieme a giocare il nostro doppio contro i cileni Cornejo e Fillol. Ricordo che ci fu anche una sospensione di gioco, a causa di una involontaria invasione di campo da parte di un cagnolino di piccola taglia inseguito da due gatti neri. Eravamo al terzo set e Marco era alla battuta. Ne approfittammo per una breve pausa, utile per espletare una necessità fisiologica all’aria aperta, vicino alla siepe, visto che il campo non aveva né spogliatoi, nè servizi igienici. Ma andava bene così, a noi bastavano le nostre racchette, due bottiglie d’acqua, gli integratori ancora non sapevamo nemmeno che esistessero, una banana da dividere in due e qualche caramella al limone o all’arancio. Ovviamente una volta finita la partita, sudati a più non posso, ci si precipitava a casa anche con il buio per una salvifica doccia. Due set pari. Marco era partito forte: 6-2 6-2, in poco meno di un’ora, e pensava di poter portare facilmente a casa la partita, senza grosse sofferenze. Ma non aveva fatto i conti con un mastino come il sottoscritto, che nei momenti difficili, tirava fuori il meglio di se e sapeva uscire alla distanza: 9-7 7-5 per il biondino, cioè per me e via al quinto e decisivo set. Il biondino e il moro, erano questi i nostri appellativi, per i nostri capelli e i nostri coloriti del viso. Il moro era robusto e più alto del biondino e aveva nella battuta il suo punto di forza, il biondino o anche lo svedese, per la capigliatura alla Borg, aveva invece nella volèe e nella veronica i suoi colpi proibiti. Se lo lasciavi fare e rallentavi un po’ il gioco e servivi la seconda debole, difficilmente avevi scampo. E quel giorno aveva deciso che avrebbe venduta cara la pelle, ancora più del solito. Marco in realtà continuava a servire con forza e precisione, ma il biondino rispondeva colpo su colpo e non di rado lo infilzava con qualche passante o lo costringeva a muoversi a destra e manca per recuperare palle impossibili. La partita era diventata così accesa che anche il parroco, tornato da poco a casa, dall’alto del suo balcone, si era sistemato con una sedia e una bibita per gustarsi lo spettacolo, aveva di fatto la sua area hospitality completamente riservata con gli ultimi raggi di sole che lo colpivano diritto negli occhi. A un certo punto non lo abbiamo più visto ed abbiamo pensato che si fosse stancato del protrarsi eccessivo della partita. Ma poco dopo lo vedemmo tornare con un’altra bibita, un panino e un cappellino per difendersi dal sole: aveva deciso che per niente al mondo si sarebbe perso il quinto e decisivo set della finale. “Out” è il suo grido alla mia seconda palla di servizio, e che succede “Ora si mette a fare anche l’arbitro” gli grido senza alcun timore reverenziale. “È fuori” grida ancor più forte, “No è dentro” gli replico a brutto muso. Alla fine mi arrendo e concedo il punto al mio avversario, ma non per convinzione, quanto per convenienza, mai mettersi contro qualcuno che ha alte influenze con il Giudice supremo, per cui 0-30 e sotto con la prima: ace 15-30, ace 30-30, pallonetto implacabile 40-30, servizio, scambio vivace con veronica finale, gioco per il biondino: 5 a 4 per Marco e sono ancora in partita. Marco serve per il match, due palle a disposizione, il prete è lì con la sua bibita che non si perde nemmeno un colpo, ho la vaga impressione che tenga per il mio avversario, forse perché i suoi genitori vanno regolarmente a Messa, o forse perché Marco dice meno parolacce del sottoscritto, anche se tutti e due abitualmente la domenica e nei giorni di festa indossiamo, dismesse le nostre tute ginniche, la divisa ufficiale della Chiesa quella cioè da chierichetto. E là non si vince e non si perde e nemmeno si gioca, ma si è seri davvero. Annullo la prima dopo essermi rotolato sulla siepe che è a pochi metri dalla linea di fondo e dopo aver fatto in tempo a vedere lo stupore del prete nel rivedermi mentre mi rialzo dolorante, ma ancora competitivo, con il braccio sinistro e il ginocchio destro leggermente sanguinanti. Il prete mosso a compassione mi butta le chiavi del bagno al piano terra, regolarmente chiuso, per permettermi di asciugare le ferite. Poco meno di un minuto e sono di nuovo in campo, guardo verso l’alto e forse la suggestione o forse il dolore fisico, ma mi sembra davvero di stare a Santiago con i gerarchi del regime  a farmi il tifo contro. La mia maglietta non è rossa come quelle di Panatta e Bertolucci, ma semplicemente bianca e azzurra, ma sento davvero il peso di tutto il tifo contro. L’incubo era l’Estadio Nacional de Cile, mentre il sogno era il Centrale del Foro Italico e così immaginavo che sia nell’area hospitality del clero che sui distinti e la tribuna internazionale ci fossero migliaia di tifosi a spingermi verso la vittoria. “Valentino, Valentino”, era il loro grido, tipo “Adriano Adriano”. E così cercavo di tirare fuori tutte le mie energie residue per una vittoria che, visto l’andamento della gara e il mio piccolo incidente, assumeva il sapore quasi dell’impresa impossibile. Marco serve ancora per il match, e così dopo uno scambio infinito da veri pallettari, non ricordo bene, ma forse saremo arrivati a trenta/quaranta scambi, Marco manda la palla in rete: parità.  Palla smorzata sotto rete, vantaggio Valentino, risposta in lungo linea e gioco: 5 pari. Si va avanti ad oltranza, senza tie break. Il prete, mosso a compassione, scende dal pulpito, pardon, dal palco, e si precipita a bordo campo per rifocillarci con merendine e bibite. Volentieri cediamo alla tentazione angelica, più che diabolica, visto l’abito del protagonista. Pochi minuti e torniamo in campo e con grande stupore notiamo che, oltre ai nostri inseparabili amici a quattro zampe, sono sopraggiunti anche alcuni vicini di casa del sacerdote richiamati dalle nostre urla e liti, spesso davvero oltremisura. In verità la visibilità è davvero limitata a tal punto che il sacerdote, è proprio vero che il prete ne sa davvero una più del diavolo, ha un lampo di genio e posizionata la sua auto in direzione del Centrale accende le luci per illuminare il campo di gioco. Due palle match per Valentino, Marco è ormai alle corde e con i lui i gerarchi del regime e così anche il prete inizia ad essere, almeno neutrale, e a ogni mio punto accenna un sorriso. Guardo in alto, chissà forse invoco un aiuto dall’Altissimo, o forse cerco semplicemente di mettere bene la palla di servizio, o forse tutte e due, risposta micidiale di Marco dall’altra parte del campo, cerco di raccogliere tutte le mie energie residue, ma non c’è niente da fare, palla match annullata. Secondo match point, seconda possibilità. Servo la prima, a rete, servo la seconda, Marco risponde con una bordata delle sue, gli rispondo prontamente, la palla va sul nastro, Marco la tocca sotto rete, mi precipito, pallonetto, Marco riesce ad arrivarci, ma la mette alta, veronica sontuosa e Marco resta piegato sulle gambe. “La coppa Davis è mia”, anzi è nostra, perché abbiamo vinto insieme, perché quando per quattro ore te le dai di santa ragione, non ci sono né vinti né vincitori, ma soltanto il sapore unico di una splendida partita di tennis in cui a vincere è soltanto il senso profondo di questo sport davvero unico.  E allora via di corsa sul motorino verso casa aspettando la prossima finale.

Valentino Mingarelli

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