Questo contenuto è stato pubblicato 8 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.
Devo mantenere la concentrazione. Tony me lo ripete allo sfinimento: “punto per punto! Non
pensare né al prima né al dopo….” . Stavolta, però, il prima è un macigno dal peso
insostenibile, un’ombra che continua a offuscare la mia mente sottraendola all’imminenza del
presente.
Tra poco torneremo in campo ed io non sono pronto. Certi fatti ti travolgono come detonazioni
improvvise dalle quali si propagano miriadi di pensieri che, come schegge impazzite, si
disperdono confusamente nelle direzioni più svariate. Pensieri disordinati che non riesci ad
afferrare, che non puoi bloccare nel loro sovrapporsi caotico e aggressivo.
Non riesco nemmeno a bere un sorso d’acqua: vorrei solo stare a terra, con lo sguardo rivolto
verso questo cielo limpido che fino a ieri mi ha aiutato a dissipare domande inutili come questo
pensiero che riecheggia con insistenza nella mia mente.
Cos’è successo? Come ho potuto sbagliare un colpo così facile? Bastava appoggiarla
delicatamente in quella distesa che mi sono procurato con quella serie di rovesci angolati e
invece …. un errore. Un brutto errore. Quanti se ne fanno nel corso di una partita… eppure, in
questo momento, mi ricordo solo quello: sembra che sia stato l’unico di tutta la gara. Senz’altro
si tratta di quello determinante, quello che mi ha portato a questo punto così difficile e
complicato della partita. Un errore che continua ad assillarmi, che ha oscurato questo terzo set in
cui, solo per miracolo, sono riuscito a difendere il servizio: poco fa, se il nastro non mi avesse
salvato da quel passante, sarei già sotto la doccia.
In queste situazioni il senso dell’irreversibile s’impone con prepotenza su tutto il resto: vorrei
tornare indietro nel tempo di qualche minuto, quanto basta per arrivare su quella palla con un
briciolo di coordinazione in più, moderando appena la forza e inclinando leggermente il piatto
della racchetta.
Era finita. Potevo chiudere la partita nel secondo set se solo non avessi avuto fretta di
concludere, se avessi calibrato meglio il colpo, se non avessi pensato così presto al dopo. Un
giocatore di esperienza come me lo sa bene: non è la prima finale che gioco.
Devo rialzarmi. Devo essere tenace. Devo insistere con il rovescio. Devo raccogliere le ultime
forze e pensare solo alla partita. Devo e basta! Ma, in questo momento, non riesco a reagire
come dovrei.
Lui sta meglio, è palese e, negli ultimi due set mi ha veramente colto di sorpresa: continua a
servire molto bene, con forza e precisione, e già da tempo ho perso il conto degli aces subiti.
Com’è possibile che, a questo punto del match, continui a piazzare delle prime a questa velocità
impressionante? Non c’è dubbio che abbia perfettamente superato l’infortunio al polso ma,
sopratutto, è evidente che non senta alcuna stanchezza nonostante l’interminabile semifinale di
avantieri. Per me è stato tutto più semplice eppure, a questo punto del match, quasi non mi reggo
in piedi.
Non lo avevo mai visto così determinato: nei nostri precedenti incontri, non è mai riuscito a
crearmi difficoltà concrete ed ho sempre avuto la meglio senza grosse difficoltà. È vero: il suo
tennis è cresciuto notevolmente, devo ammetterlo, ma è ancora un giocatore incompleto: ero
convinto di riuscire a imporre il mio gioco più ricco ed esperto senza dover faticare più di tanto.
Sentivo che non sarebbe stato come nelle ultime sfide ma, tuttavia, non pensavo affatto di
arrivare a giocarmi il titolo al tie-break.
Evidentemente mi sbagliavo.
Contrariamente alle mie previsioni, il secondo set è stato molto combattuto. Nel primo non
sembrava lui, non era quel guerriero tenace che lotta su ogni colpo e che trasmette tensione
all’avversario: era lento, prevedibile, tremendamente impreciso…. E poi, dopo quel doppio fallo
sul 30 a 40 del nono game, pensavo che avrebbe definitivamente ceduto. Nulla di tutto questo.
Nonostante quattro games giocati alla perfezione, anche nel secondo set è stato lui a sbagliare
per primo concedendomi il break: pareva che il suo innegabile talento dovesse cedere per
l’ennesima volta alla fragilità della sua mente. Ho, quindi, iniziato a servire per il match e l’ho
fatto molto bene: un ace ed una prima vincente. Proprio quando pensavo di avere la partita in
pugno, lui mi ha folgorato con tre risposte imprendibili: ha trovato delle traiettorie impossibili,
rischiando come se fossimo al primo game della partita, puntando tutto come fa un vero
giocatore d’azzardo. Ho annullato la palla break e, subito dopo, sono andato in vantaggio: un
solo punto alla vittoria. Lui ha continuato a giocare senza timore e con grande personalità: dopo
il mio clamoroso errore sul match-point, ha preso coraggio e, con due splendide discese a rete,
ha chiuso i due punti decisivi del game. Così, dopo l’immediato contro-breack, ha affondato il
colpo aggiudicandosi il set e pareggiando così il conto.
Nel terzo set, chi ha corso tanto sono solo io ma, nonostante il mio evidente calo, non ho mai
perso il servizio.
Lui gioca contro di me: come fa a non sentirne il peso? Io sono pur sempre una certezza, lui è
solo una promessa. Io non devo dimostrare più nulla. Lui, invece, deve ancora provare di
meritare gli elogi e le aspettative che tutti ripongono in lui. È molto giovane e pensavo che
avrebbe ceduto al carico estenuante di tali incertezze.
Ho vinto tantissime partite prima di entrare in campo: chi deve incontrarmi sa chi sono, conosce
i miei successi, la mia continuità, la mia completezza. La mia classe. Per ogni mio avversario,
questi aspetti rappresentano il primo inevitabile ostacolo da affrontare prima del match: devono
riuscire a far tacere la pesantezza delle loro gambe, non ascoltare l’insistenza delle pulsazioni
che opprimono il loro petto, devono riuscire a convincersi che non è impossibile vincere. Tante
volte ho visto sgretolarsi le loro fragili convinzioni fin dai primi games, dopo alcune risposte
decise ai loro servizi angolati.
Questo effetto va dissolvendosi nel tempo: anche oggi ne ho avuto prova … non suscito più lo
stesso timore che riuscivo ad incutere un tempo. L’ho visto negli occhi dei miei ultimi avversari,
nell’equilibrio stabile e spavaldo dei loro corpi: hanno perso, sì, ma pensavano di potercela fare;
ne sono stati convinti fino alla chiusura dei match-points che mia hanno concesso. Questo mi
disturba. Mi distrae. Mi conduce prepotentemente al dopo, quel dopo che ho sempre percepito
lontano, talmente lontano da indurmi all’illusione che non sarebbe mai arrivato. Certo: ho
sempre saputo che si trattava di un’errata percezione indotta dall’inarrestabile sequenza dei miei
successi. Tutto, infatti, prima o poi, giunge irrimediabilmente al proprio epilogo, anche nel
tennis. Alcuni eventi sono inevitabili: sappiamo benissimo che è solo una questione di tempo,
che prima o poi avremo a che fare con loro ma, nonostante ciò, ci facciamo ingannare dalle false
promesse di eternità del corpo e della mente.
Forse il dopo che ho sempre allontanato dalle mie percezioni è alla soglia. È pronto ad insinuarsi
con i suoi nuovi ritmi, con l’affievolirsi delle aspettative, con le sue smorzate che si arrestano
flebilmente ai piedi della rete dopo un vano tentativo di recupero. Io, però, vedo ancora il
presente: lì, tra pochi istanti, a fondo campo: voglio mostrare, ancora una volta, che non sono il
passato…. E che lui è ancora il futuro, un futuro possibile, forse probabile, ma pur sempre
incerto.
È il momento: si deve rientrare in campo. Salirò a rete e giocherò d’anticipo.
Gianmarco Massa
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