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Le parole del tennis — i migliori racconti

Un giorno a Belgrado

Questo contenuto è stato pubblicato 7 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Ho sempre pensato che lo sport da raccontare fosse quello anonimo.

Le partite a calcetto del giovedì, poi pizza.

L’incontro di rugby, poi terzo tempo.

Palestra due volte la settimana, poi una bella doccia.

Partitella a tennis, con gli amici.

Corsetta giornaliera al mare, con la cagnolina che a testa bassa ti corre accanto.

Lunghe passeggiate in montagna, preferibilmente sul Gran Sasso.

Biciclettate con moglie e figlie.

Ecco, uno sport cosi, senza stress, da gustarsi appieno, prendendo solo la parte migliore. Come lo vivo io, grazie ai miei genitori, che avevano come priorità  la vita serena.  Uno sport vissuto in solitudine e in compagnia, ricevendo da esso salute, amicizia, solidarietà. Tutto.

Sono un metalmeccanico, faccio i turni.

Quando la mattina, alle cinque, mi trovo, rincoglionito, a chiedermi se dalla vita potevo avere di più, rifletto un po’ sulla mia condizione e penso che no, dalla vita ho ricevuto il massimo. Perché sono un uomo fortunato, sono in salute,ho un lavoro, una casa, una bella famiglia.

E faccio sport.

E mi piace molto. Tutto.

Mi piace quando a tennis riesco a fare un vincente al mio amico Diego.

Quando corro lungo la battigia con De Andre nelle cuffie e la mia cagnolina che mi stà a fianco.

Quando vado in bici con mia moglie, e ogni tanto ci fermiamo a camporella.

Vorrei che la vita fosse sempre cosi, un pieno di salute e una corsa nel vento.

E oggi, diciassette novembre, voglio scrivere una storia che sia un particolare, uno spaccato di vita quotidiana esaltata dallo sport.

Sono in cucina e ho la tivù accesa.

Sono solo.

Mia moglie e le mie due figlie sono in giro a fare spese. (E io pago!!)

La cagnolina è accovacciata e tranquilla.

Rifletto e guardo senza vedere.

Decido di imbastire una storia che mostri lo sport come valore aggiunto nella vita di un uomo qualunque.

Sto per partire, quando lo sguardo mi và al televisore.

C’è un po’ di baccano. Alzo il volume.

Finale di Coppa Davis.

Il campione locale ha appena fatto un break e tutto lo stadio esplode.

Non lo nego, ho un debole per il tennis. Allora mi concentro un po’ sulla partita. È quella decisiva. Nei giorni scorsi le due nazioni, Repubblica Ceca e Serbia, si sono già incontrate e adesso il punteggio è sul due a due.

Cerco di capire chi sono i due giocatori e subito riconosco Stepanek muso da can,come è chiamato per via della sua brutta faccia.

È’ ceko, numero trenta del ranking mondiale, trentacinque anni.

Un lottatore, uno che non molla mai. Non si fa molto amare dal pubblico perché è un rognoso. Usa tutti i mezzi a disposizione, leciti, per irretire l’avversario, non ultimo, la provocazione.

È storia dell’anno scorso quella che lo vide protagonista eclatante di una partita proprio in un incontro di Coppa Davis, e proprio con un giocatore serbo, Tipsarevic, poi vinta al quinto set. I due vennero più volte calmati dai rispettivi allenatori e, a fine partita, non si strinsero la mano, cosa inconcepibile per uno sport che fa del fayr-play il proprio stile di vita.

Cerco di capire chi è l’altro giocatore, quello serbo.

La regia non mi aiuta, non lo inquadra da vicino.

Il regista di Super Tennis oggi è particolarmente arrapato, perché non se ne fa scappare una!!

Ma comunque, penso, è una partita importante, decisiva. Si decide quale nazionale si porterà a casa la famosa insalatiera. È’ un grande onore. Poi, le due nazioni che si contendono il trofeo sono famose per il proprio spirito di appartenenza, per l’orgoglio nazionalistico.

Quindi il rappresentante serbo non può che essere Djokovic, il grande campione. Un grande atleta. Passerà sicuramente alla storia come uno degli sportivi più rappresentativi del proprio paese. Di tutti i tempi. È un giocatore formidabile. In questo periodo neanche il Grande Majorchino riesce a contrastarlo. Poi io l’ho conosciuto personalmente, a Roma, agli Internazionali. Mi ha dato l’impressione di un ragazzo molto umile ma estremamente determinato. Stava firmando l’autografo a mia figlia e io l’ho urtato involontariamente ad un braccio.

Non s’è neanche incazzato.

Si, deve essere lui. La posta in palio è troppo grande.

A parte i proventi economici, particolarmente cospicui per la federazione vincitrice, è proprio sul riscatto sociale, che nazioni un po’ penalizzate storicamente possono contare attraverso una vittoria dalle risonanze mondiali.

E sia la Repubblica Ceca che la Serbia avrebbero un po’ di credito storico da riscuotere.

Comunque Tipsarevic, il tennista serbo numero due non può essere, perché infortunato; e neanche  il numero tre, Trojcky.

Ma conosco bene Djokovic, come si muove, come fa il rovescio, come si esalta in un recupero, e il giocatore che vedo, piccolo e distante, onestamente non gli somiglia molto.

Poi ricordo che non può essere lui perché ha già disputato, e vinto, i suoi due singolari.

Intanto è arrivato il contro break da parte di Muso da can.

Sull’uno a uno non c’è pausa, e nel terzo gioco Stepanek impone il suo serve and volley e fa due a uno. Breve pausa di pubblicità.

Provo a concentrarmi sulla mia storia, ma ormai devo sapere chi è il serbo.

Quando torna il collegamento la regia, finalmente paga, si sta soffermando sullo sguardo impassibile del ceko.

Una sfinge. Sguardo nel vuoto. Ogni tanto un sorso d’acqua.

Poi l’inquadratura passa all’altro giocatore, e finalmente lo vedo.

E non capisco; è un giovanissimo che non conosco.

Si chiama Lajovic Dusan, classe novanta, numero centoquindici al  mondo. Sono sorpreso che si affidino ad un esordiente i destini sportivi di una nazione. Poi penso che deve essere un ragazzo in ascesa, che il suo attuale rancking sia bugiardo. D’altronde, Nadal, Federer, lo stesso Djokovic a quell’età erano dei semi sconosciuti ma già fortissimi, predestinati.

Questo ragazzo dev’essere cosi.

Guardo l’incontro. Dusan mantiene il servizio, un po’ a fatica. L’emozione.

Stepanek tiene a zero il suo.

Dopo il cambio di campo, noto delle indecisioni da parte del serbo e il ceko brecca. Impeccabile poi, Muso, al servizio.

Il primo set si chiude con il punteggio di sei tre a favore del vecchio lottatore e lo stadio ammutolisce

Ora la regia si sofferma un po’ troppo sul giovane serbo. Anche lui ha lo sguardo nel vuoto, ma i suoi occhi sono il riflesso della paura.

L’allenatore della nazionale serba stà parlando con lui. Forse lo sta caricando. Forse lo sta rassicurando.

Mentre si alza, si dà delle gran pacche sulle gambe e l’ovazione del pubblico è tutta per lui. Già, il pubblico. Cerca in tutti i modi d’infastidire Stepanek. Non sanno che è proprio in quelle situazioni che il guerriero che è in lui esce fuori.

Comincia a randellare a destra e sinistra, vincenti a ripetizioni, volee di dritto e di rovescio,ace. Senza respiro.

Il povero Dusan è in balia del ceko.

Cerca in tutti i modi di uscirne, ma Stepanek non ha pietà e lo ricaccia dentro, a subire. È un massacro, una mattanza.

Dal pubblico non esce più un fiato.

Molti  vanno via, non volendo assistere al trionfo avversario.

Adesso Lajovic è solo. Non è il nuovo Nadal e neanche un altro Federer.

È solo un bravo giocatore che lotta contro Stepanec il gladiatore e contro la storia del suo Paese, cercando di evitare un’altra sconfitta al suo popolo. E usa i soli mezzi che ha, la grinta e la rabbia. E risponde, colpo su colpo. Ma ormai i suoi sono pugni di un pugile domato e stremato, che mena fendenti a occhi chiusi, a caso.

Siamo al match-point.

Dusan, eroico, è concentrato.

Stepanek serio.

Serve and volley, il serbo a destra, palla a sinistra. Gli spettatori di fede ceka esultano.

E qui esce, sinora dormiente e silente, sopito da emozioni antiche e da interessi economici, tutto il calore e il bello dello sport, quello vero.

Stepanek si divincola dalla morsa affettuosa e gioiosa dei suoi compagni e si dirige verso la panchina serba.

Dusan è seduto, il corpo stremato dalla fatica e dai singhiozzi, il volto nascosto da un asciugamano che lo cela, bambino, al mondo.

E Radek Muso da can, il cinico, gli toglie l’asciugamano e lo abbraccia. Forte. A lungo. Intimamente. Come solo due fratelli.

Tutto lo stadio è muto, attonito. I due uomini si riconoscono figli di uno stesso ideale, alleggeriti nell’anima dalla storia di un carnefice che salva la sua vittima, intuendone la disperazione.

La disperazione di un ragazzo che, caricandosi sulle spalle la responsabilità  di una gioia per la sua gente, delude, perdendo.

Ma il popolo è lo specchio di tanti Dusan, e solo attraverso lo sport trova la propria esaltazione e anche la propria, vera e nobile, identità.

Ecco che allora, lungo e fragoroso, esplode l’applauso, e quello che è soltanto un sussurro, divento un boato:

Dusan, Dusan, Dusan.Radek, Radek, Radek.

Non occorrono false e tragiche chimere per compattare un popolo.

Basta un ragazzo, lo stesso che ritrova la stima di sé e l’amore per la sua nobile terra.

Questa volta, però, Djokovic, s’è un po’ incazzato!

Mario Passi

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