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Le parole del tennis — i migliori racconti

Il mistero del mancino

Questo contenuto è stato pubblicato 6 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Sui campi secondari i giovani e i bambini delle scuole tennis si accalcavano intorno alle balaustre.

I loro idoli non sono e non erano Federer o Zverev, e neanche le Williams o Errani; piuttosto loro seguono le promesse, i loro next gen, i ragazzi e le ragazze che ammirano impegnati nella serie b al circolo la domenica mattina; le loro racchette impattano le palline con una violenza che chi vive il tennis solo in tv non arriva a intuire.

Sono schiaffi, sono mazzate tirate con una energia impensabile ancora 30 anni fa.

Si, il materiale, si, le palle di nuova conformazione: ma la forza impressa ai loro colpi non è tanto diversa da quella dei Grandi, da quelli che da domani avrebbero riempito le tribune del Centrale e del Pietrangeli.

Quello che cambia è la costanza, l’attitudine, la concentrazione; tra un campione e un eterno emergente la differenza è nei particolari, uno, dieci, mille: la capacità di andare avanti punto dopo punto, gioco dopo gioco, senza mai arrendersi e senza mai pensare al punto sbagliato. E’ dal numero di volte che si gira indietro che distingui un campione da un talento che si fermerà.

Giorgio De Silvi non era un campione, e neanche un emergente; era un semplice appassionato che aveva scavallato da un bel pezzo la trentina, che amava trascorrere un paio d’ore la settimana con una racchetta in mano di mediocre qualità su un campo di un circolo della periferia di Napoli.

Eppure quella mattina di una domenica di metà maggio Giorgio era a Roma, tra le statue del Foro Italico, questa volta però senza avere comprato il biglietto di ingresso come faceva da anni (il venerdi, il giorno dei quarti di finale era il suo preferito, sempre distinti Tevere, ingresso sia per la sessione diurna che per quella serale), ma a riscaldarsi con una tennista, una di quelle brave brave, dal cognome impronunciabile ma dalle leve indimenticabili.

Giorgio era approdato al tabellone finale di qualificazione attraverso una incredibile combinazione di eventi: a inizio gennaio si era iscritto (anzi, era stato iscritto a sua insaputa dal compagno di singolare del sabato mattina) al torneo Tpra del circolo, e da non classificato aveva scalato il tabellone partita dopo partita, passando indenne attraverso le forche caudine di un 4.3, un 4.2, e altre categorie di classifiche di cui sinceramente ignorava la distinzione e i criteri; quello che ai suoi fini contava è che ogni weekend a partire da gennaio era sceso in campo, e aveva vinto.

Prima nel suo circolo, poi in altri circoli a Napoli, poi in provincia, poi di nuovo a Napoli.

Ogni volta arrivava, osservava il campo (rigorosamente terra battuta, anzi, clay, come dicono coloro che discettano di tennis con quel pacioso senso di superiorità italico tipico di chi non ama il calcio), gustava un caffè con amici e avversari, scambiava quattro chiacchiere ed entrava nello spogliatoio.

Ne riemergeva dieci minuti dopo, un rituale consolidato; e nessuno realmente era in grado di spiegarsi cosa accadesse quando la terra rossa iniziava a riempire scarpe e i calzini dei contendenti.

Eppure vinceva, vinceva lui, quel signore avviato alla quarantina un filo sovrappeso (le magliette in sintetico sono impietose con chi non vanta addominali scolpiti: anche se è quella che indossa Rafa tu non sei Rafa, e la differenza balza agli occhi).

Quasi sempre al terzo set, in rimonta, sempre contro avversari sulla carta più forti di lui, ragazzi più giovani e più allenati che partivano forte, fortissimo, 3-0, 4-1, 5-3, break, ace, rovesci liftati, volée e dritti lungolinea che Giorgio a volte non vedeva neanche partire o rinunciava a rincorrere.

A volte arrivavano anche a due punti dal match point gli avversari, ed era anche logico considerato il gap tra lui e loro.

Eppure da quattro mesi a questa parte, accadeva che nel momento topico dell’incontro (al cambio campo dopo un break subito, raccogliendo la palla in rete dopo un doppio fallo; oppure ai margini del campo, talvolta anche tra una prima e una seconda di servizio addirittura) Giorgio si avvicinava all’avversario, lo incrociava, scambiava una battuta al volo: e la musica cambiava.

Falli di piede, errori non forzati, palle smorzate che finivano in rete, dritti sparati nel campo adiacente: l’intero campionario degli orrori avversari si palesava nell’arco di dieci quindici minuti, non di più, e a Giorgio De Silvi a quel punto bastava rimettere letteralmente la palla in campo per fare punto.

E ci riusciva, quel pallettaro mancino dal servizio debole ma liftato. Ecco, l’unico pregio che gli si riconosceva unanimemente era la tenuta, fisica e mentale.

Giorgio era scarso, nessuno avrebbe pensato che nel suo dna scorresse il sangue di un predestinato: ma era tenace, coriaceo, correva sulle palle corte anche la dove era evidente che mai le avrebbe prese. Però correva, e questo voleva dire che il punto successivo sarebbe stato suo.

Non aveva colpi speciali o vincenti, neanche uno: giocava sull’errore dell’avversario, sempre: e vinse, sempre. A gennaio, a febbraio, alle semifinali provinciali: andava sotto, recuperava, vinceva: due volte addirittura l’avversario si ritirò in preda a stiramenti o contratture.

Il finale appariva già scritto ormai, al punto che nell’ambiente campano si iniziò a parlare con sempre maggiore insistenza di questo anomalo fenomeno da baraccone. Scesero a vederlo grandi e bambini, maestri di tennis dall’Alta Irpinia, si scomodarono anche vecchie volpi e glorie locali arrivate a un quarto di finale nazionale negli anni ’80, tutti a cercare di scoprire quale mistero si nascondesse dietro lo sconosciuto Giorgio De Silvi.

I più accaniti, amanti del giallo a tinte fosche, giunsero a pensare a droghe sciolte nelle bottigliette d’acqua e sali minerali in grado di debilitare gli avversari: ma tutte le analisi effettuate diedero esito negativo.

Gli avversari erano puliti, De Silvi era pulito.

Quella domenica mattina di maggio, sotto un sole estivo, dopo tre turni di prequalifiche la bella slovacca numero 160 dell’ATP scambiò cinque minuti di colpi con Giorgio prima di sentenziare nella sua lingua, senza possibilità di appello o smentita: è una pippa colossale, ma come ci è arrivato fino a qui questo.

Giunse il momento della verità. L’ultimo turno prima di essere ammesso al tabellone principale.

Un incontro a suo modo epocale per gli Internazionali BNL d’Italia, grazie alla doppia anomalia: ad affrontarsi erano infatti Giorgio De Silvi, non classificato inerpicatosi fino a una partita dall’entrare nel tabellone principale; e Duck Hee Lee, il primo giocatore sordo giunto alle soglie di un tabellone Master 1000.

I due si salutano. Ciascuno va al proprio posto, (Giorgio alla sinistra del giudice di sedia, Duck alla destra); sistema gli asciugamani e le bottigliette, riscaldamento, time, in campo.

La lingua italiana è bella perché è ricca di parole, di sfumature, di suoni, di significati, distinti lemma per lemma, vocale per vocale.

Per definire l’incontro cui assisterono migliaia di persone (un record per i turni di qualificazione) e decine di giornalisti accreditati da tutto il pianeta del tennis un termine esiste, l’unico, il più appropriato: massacro.

6-0 6-0, 46 minuti di agonia, e il mondo festeggiò agitando le mani in alto il primo tennista sordo ad approdare ad un Master 1000.

Duck Hee Lee salutò educatamente il suo avversario, ringraziò il pubblico con un inchino degno della cerimonia di premiazione, e in pochi secondi venne ingoiato dal tunnel che conduce agli spogliatoi.

Sul centrale rimase Giorgio, immobile come se colpito da un jab sinistro in contropiede.

Le telecamere lo inquadrarono mentre osservava gli spalti che ancora echeggiavano dei fischi di scherno al suo indirizzo, riponeva la racchetta nella borsa e mestamente lasciava, una volta e per sempre, il centrale, il pubblico del Foro Italico, e il tennis.

Non prese mai più una racchetta in mano.

Era riuscito a manipolare tutti con le parole – quelle che da anni usava per condurre conversazioni, discussioni e trattative nella vita privata e nel lavoro, per mezzo delle quali giocava (mai parola fu più adatta) senza che gli altri comprendessero fino in fondo dove lui li riuscisse a trasportare.

Il mago dell’ipnosi conversazionale aveva matato tutti, ad eccezione dell’unico avversario con cui non aveva potuto scambiare neanche una parola. Forse gliene sarebbe bastata veramente una: ma non ne ebbe l’opportunità.

Era il tempo di passare agli scacchi.

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